Quest’anno ho confermato il
fatto che il Natale passato al caldo non puo’ essere considerato Natale. Santa
Claus ha il vestito in flanella rossa e viene dalla Lapponia innevata con la
slitta. Gesu’ Bambino nasce in una mangiatoia al freddo e al gelo e ha bisogno
di un asino e di un bue che gli respirino addosso per riscaldarsi. Come faccio
ad immaginare tutto questo e a capire che è già finito Dicembre se attorno a me
la gente è in canottiera e se al posto degli abeti con le palle rosse e dorate
ci sono solo palme da cocco e baobab con i frutti pendenti?
Ci fossero almeno le
luminarie… E invece è già un miracolo incontrare normalmente un lampione acceso
in tutta Bissau. Le centrali elettriche non esistono. Qui esiste solo il
generatore. E figuriamoci se qualcuno è disposto a sprecare il preziosissimo
gasolio per aumentare la dose di atmosfera natalizia!
Per fortuna ci hanno
pensato i Giuseppini. Un presepino nel corridoio, una stella cometa luminosa
all’entrata della scuola, qualche decorazione nel cortile e attorno alla statua
del santo e il refettorio trasformato nella fiera del kitsch. Sembra che l’aria di festa abbia scatenato il
gusto artistico di C. che ha impacchettato qualsiasi stipite quadro cornice e
finestra con quei cosi lunghi e sbriluccicosi che fanno molto anni ottanta. Ha
insistito perché ne appendessi uno sulla mia porta: color fucsia e argento. Una
cosa terribile. Ma almeno si intona con il tremendo rosa shocking con cui hanno
deciso di imbrattare le pareti.
Tutti hanno approfittato
delle vacanze per tornare a casa. Alcuni hanno deciso di intraprendere il
viaggio della speranza tra le montagne della Guinea Conakry. Io ho raggiunto G.
a Gabù per passare le feste con lei e con V. nell’antica capitale del glorioso
regno di Kaabu, uno degli imperi più importanti dell’Africa Occidentale di cui
purtroppo non è rimasta alcuna traccia. E cosi mi ritrovo alle ottoeventicinque
di un sabato mattina al paragem di
Bissau in mezzo a minibus carichi di sacchi in tela, capre, galline ed esseri
umani; circondata da venditori ambulanti che offrono cibo, acqua e gingilli di
ogni tipo e grandi urlatori che tentano di convincermi a partire per altre
destinazioni. Mancano ancora tre persone per riempire il sept-place su cui viaggerò,
una Peugeot 504 a sette posti che non partirà finché non sarà piena del tutto. Io
ho il numero quattro: posto comodo, vicino al finestrino.
Sono le noveeunquarto del
mattino. Ci siamo io, un nigeriano e sei guineensi.
Non è l’inizio di una barzelletta, ma è l’inizio di un viaggio di tre ore in
una macchina che cammina per grazia ricevuta attraverso l’unica strada
asfaltata che taglia il paese nel mezzo e lo divide tra nord e sud. Durante la
traversata ci si conosce, ci si racconta, si scende a Safim per far controllare
i documenti alla polizia, si rimonta in macchina e si riscende nuovamente per
attraversare a piedi il ponte sul Rio Geba. Si riparte in ritardo perché il
ragazzo con il numero sei non ha il documento in regola e deve pagare una multa
di duemila FCFA al poliziotto che però non ha il resto, si scende di nuovo per scavalcare
il secondo ponte all’altezza di Bafatà e una volta risaliti resisto solo tre
chilometri prima di gridare forte un PARA KARU!! che costringe l’autista a
fermarsi al bordo della strada per permettermi di svuotare la vescica in mezzo
alla savana. E’ mezzogiornoetrentacinque e finalmente sono a Gabù.
La città è in realtà un
grande mercato dove si incrociano le merci provenienti dal Senegal, le stoffe colorate
della Guinea Conakry e il pesce arrivato già scaduto dal porto di Bissau. E’
una città in cui a farla da padrone è il gruppo etnico dei Fula, discendenti
dai tratti inconfondibili di pastori nomadi provenienti probabilmente
dall’Etiopia, alti, snelli, con gli occhi un po’ allungati e la pelle più
chiara rispetto ai guineani di altre etnie. Sono degli ottimi commercianti di
religione islamica e l’atmosfera che si respira per le strade cittadine ha un
non so che di arabeggiante. Gabù ha una sola strada in asfalto. Il resto è
soltanto terra battuta. Una terra rossa, arida, che asciuga gli occhi da far
male e che nessun tipo di spugna riesce a far andar via dai miei piedi. Quando
arrivano le folate di vento caldo ti si incastra nei capelli, nei denti, ti
entra nel naso; riesci a trovartela pure nelle mutande una volta tornata a casa
e sotto il sole cocente di questo entroterra provo a pensare con timore cosa
può significare il deserto che si trova solo a pochi paralleli più a nord.
Le giornate di festa
trascorrono tranquille. Dopo aver condotto a morte certa due piante sradicate
dal mato per il puro gusto di avere
un albero di Natale abbiamo optato per un’alternativa più eco-sostenibile: la
sagoma di un abete disegnato sul muro con le lucine intermittenti in plastica fabbricate
in Cina. La cena della vigilia è stata posticipata a mezzanotte per via della
messa durata tre ore in cui le zanzare hanno avuto tutto il tempo di
banchettare col mio sangue; era anche l’ultimo giorno di novena, giusto perché
ci piace proprio non farci mancare niente. Per rimanere leggeri gnocchi di patate,
maialetto al forno con tanto di mela in bocca, mousse di cabeceira e una bella insalatina per cancellare i sensi di colpa.
Prima di sedersi a tavola L. intona il canto Noite Feliz a venti ottave sopra la normale estensione di qualsiasi
essere umano così che nessuno riesce ad accompagnarla nella sua preghiera. E’
una suora brasiliana alta un metro e mezzo, occhiali tondi, capelli scuri e un
grande senso dell’umorismo. E’ qui in Guinea Bissau da trentacinque anni, la
conoscono tutti, ha visto la guerra civile, ha rischiato di morire per una
malaria cerebrale e adesso, dopo tutto questo tempo e tutta questa vita, ha
deciso di tornare a casa.
…Cosa si prova quando si lascia per sempre un posto in cui hai speso quasi
tutta la tua esistenza?...
La macchina non parte.
L’ultima volta le luci erano rimaste accese, questa volta è stata colpa della
radio. Siamo in tre a spingere il pick-up ma quando si accende il motore alla
fine del viale siamo diventati più di dodici: non ci si lascia mai sfuggire una
buona occasione per guadagnare qualche spicciolo in cambio di un aiuto. Il
vescovo ci aspetta a Bafatà per il pranzo di Natale che per la verità ha più le
sembianze di una scampagnata del Primo Maggio. Siamo in ritardo come sempre. La
tenuta è ben curata e si affaccia con arroganza sul fiume e sulle campagne vicine;
ci sono altri italiani arrivati dal Veneto per passare le feste con il parroco
veronese di Contuboel. Di questi, un ex-costruttore settantenne dagli occhi
stanchi e dall’udito difettoso diventa il mio interlocutore privilegiato e tra
due chiacchiere sulla crisi, sui giovani e sul lavoro, tra il pandoro, un
bicchiere di vino e una tazzina di caffè quasi mi scordo di non essere in
Italia, e appena mi torna in mente, quasi ho paura di doverci ritornare.
Bafatà mi è entrata nel
cuore. La città vecchia ha tutta la bellezza di un luogo abbandonato e
dimenticato dal mondo intero con i suoi edifici portoghesi in rovina, il
mercato ancora ben tenuto ma totalmente vuoto, i ciottoli per la strada
perfettamente incastrati come se nessuno li calpestasse da anni, un silenzio
tombale interrotto solo da cinque donne che con una finezza tipicamente
africana ci costringono a sentire i loro canti sguaiati accompagnati da due
paletti in metallo che battono il ritmo.
Sembra che il tempo qui non sia mai
esistito, e sospesa in questa sensazione di infinito mi diverto ad immaginare
le persone che animavano questi spazi, le botteghe aperte al bordo della
strada, i carretti che passano trainati dagli asinelli, le voci dei pescivendoli
che arrivano dal mercato, le galline che corrono in mezzo alla strada e le
donne con i bambini appesi alla schiena che camminano e ridono mentre vanno a
prendere l’acqua.
Un clacson suona insistente
alle nostre spalle. Mi sveglio dal mio incanto. Per la prima volta nella
giornata guardo l’ora sul telefonino. Sono già le sei di sera ed è ora di
tornare a casa.