martedì 8 gennaio 2013


"Siamo fatti per vivere liberi, gli spazi aperti sono cio' di cui abbiamo bisogno.
A volte la notte mi sdraio sulla schiena ad ammirare le stelle
e mi sembra di impazzire dalla gioia."

domenica 6 gennaio 2013

Un Natale insolito

Quest’anno ho confermato il fatto che il Natale passato al caldo non puo’ essere considerato Natale. Santa Claus ha il vestito in flanella rossa e viene dalla Lapponia innevata con la slitta. Gesu’ Bambino nasce in una mangiatoia al freddo e al gelo e ha bisogno di un asino e di un bue che gli respirino addosso per riscaldarsi. Come faccio ad immaginare tutto questo e a capire che è già finito Dicembre se attorno a me la gente è in canottiera e se al posto degli abeti con le palle rosse e dorate ci sono solo palme da cocco e baobab con i frutti pendenti?

Ci fossero almeno le luminarie… E invece è già un miracolo incontrare normalmente un lampione acceso in tutta Bissau. Le centrali elettriche non esistono. Qui esiste solo il generatore. E figuriamoci se qualcuno è disposto a sprecare il preziosissimo gasolio per aumentare la dose di atmosfera natalizia!
Per fortuna ci hanno pensato i Giuseppini. Un presepino nel corridoio, una stella cometa luminosa all’entrata della scuola, qualche decorazione nel cortile e attorno alla statua del santo e il refettorio trasformato nella fiera del kitsch.  Sembra che l’aria di festa abbia scatenato il gusto artistico di C. che ha impacchettato qualsiasi stipite quadro cornice e finestra con quei cosi lunghi e sbriluccicosi che fanno molto anni ottanta. Ha insistito perché ne appendessi uno sulla mia porta: color fucsia e argento. Una cosa terribile. Ma almeno si intona con il tremendo rosa shocking con cui hanno deciso di imbrattare le pareti.

Tutti hanno approfittato delle vacanze per tornare a casa. Alcuni hanno deciso di intraprendere il viaggio della speranza tra le montagne della Guinea Conakry. Io ho raggiunto G. a Gabù per passare le feste con lei e con V. nell’antica capitale del glorioso regno di Kaabu, uno degli imperi più importanti dell’Africa Occidentale di cui purtroppo non è rimasta alcuna traccia. E cosi mi ritrovo alle ottoeventicinque di un sabato mattina al paragem di Bissau in mezzo a minibus carichi di sacchi in tela, capre, galline ed esseri umani; circondata da venditori ambulanti che offrono cibo, acqua e gingilli di ogni tipo e grandi urlatori che tentano di convincermi a partire per altre destinazioni. Mancano ancora tre persone per riempire il sept-place su cui viaggerò, una Peugeot 504 a sette posti che non partirà finché non sarà piena del tutto. Io ho il numero quattro: posto comodo, vicino al finestrino. 


Sono le noveeunquarto del mattino. Ci siamo io, un nigeriano e sei guineensi. Non è l’inizio di una barzelletta, ma è l’inizio di un viaggio di tre ore in una macchina che cammina per grazia ricevuta attraverso l’unica strada asfaltata che taglia il paese nel mezzo e lo divide tra nord e sud. Durante la traversata ci si conosce, ci si racconta, si scende a Safim per far controllare i documenti alla polizia, si rimonta in macchina e si riscende nuovamente per attraversare a piedi il ponte sul Rio Geba. Si riparte in ritardo perché il ragazzo con il numero sei non ha il documento in regola e deve pagare una multa di duemila FCFA al poliziotto che però non ha il resto, si scende di nuovo per scavalcare il secondo ponte all’altezza di Bafatà e una volta risaliti resisto solo tre chilometri prima di gridare forte un PARA KARU!! che costringe l’autista a fermarsi al bordo della strada per permettermi di svuotare la vescica in mezzo alla savana. E’ mezzogiornoetrentacinque e finalmente sono a Gabù.
La città è in realtà un grande mercato dove si incrociano le merci provenienti dal Senegal, le stoffe colorate della Guinea Conakry e il pesce arrivato già scaduto dal porto di Bissau. E’ una città in cui a farla da padrone è il gruppo etnico dei Fula, discendenti dai tratti inconfondibili di pastori nomadi provenienti probabilmente dall’Etiopia, alti, snelli, con gli occhi un po’ allungati e la pelle più chiara rispetto ai guineani di altre etnie. Sono degli ottimi commercianti di religione islamica e l’atmosfera che si respira per le strade cittadine ha un non so che di arabeggiante. Gabù ha una sola strada in asfalto. Il resto è soltanto terra battuta. Una terra rossa, arida, che asciuga gli occhi da far male e che nessun tipo di spugna riesce a far andar via dai miei piedi. Quando arrivano le folate di vento caldo ti si incastra nei capelli, nei denti, ti entra nel naso; riesci a trovartela pure nelle mutande una volta tornata a casa e sotto il sole cocente di questo entroterra provo a pensare con timore cosa può significare il deserto che si trova solo a pochi paralleli più a nord.

Le giornate di festa trascorrono tranquille. Dopo aver condotto a morte certa due piante sradicate dal mato per il puro gusto di avere un albero di Natale abbiamo optato per un’alternativa più eco-sostenibile: la sagoma di un abete disegnato sul muro con le lucine intermittenti in plastica fabbricate in Cina. La cena della vigilia è stata posticipata a mezzanotte per via della messa durata tre ore in cui le zanzare hanno avuto tutto il tempo di banchettare col mio sangue; era anche l’ultimo giorno di novena, giusto perché ci piace proprio non farci mancare niente. Per rimanere leggeri gnocchi di patate, maialetto al forno con tanto di mela in bocca, mousse di cabeceira e una bella insalatina per cancellare i sensi di colpa. Prima di sedersi a tavola L. intona il canto Noite Feliz a venti ottave sopra la normale estensione di qualsiasi essere umano così che nessuno riesce ad accompagnarla nella sua preghiera. E’ una suora brasiliana alta un metro e mezzo, occhiali tondi, capelli scuri e un grande senso dell’umorismo. E’ qui in Guinea Bissau da trentacinque anni, la conoscono tutti, ha visto la guerra civile, ha rischiato di morire per una malaria cerebrale e adesso, dopo tutto questo tempo e tutta questa vita, ha deciso di tornare a casa.
…Cosa si prova quando si lascia per sempre un posto in cui hai speso quasi tutta la tua esistenza?...

La macchina non parte. L’ultima volta le luci erano rimaste accese, questa volta è stata colpa della radio. Siamo in tre a spingere il pick-up ma quando si accende il motore alla fine del viale siamo diventati più di dodici: non ci si lascia mai sfuggire una buona occasione per guadagnare qualche spicciolo in cambio di un aiuto. Il vescovo ci aspetta a Bafatà per il pranzo di Natale che per la verità ha più le sembianze di una scampagnata del Primo Maggio. Siamo in ritardo come sempre. La tenuta è ben curata e si affaccia con arroganza sul fiume e sulle campagne vicine; ci sono altri italiani arrivati dal Veneto per passare le feste con il parroco veronese di Contuboel. Di questi, un ex-costruttore settantenne dagli occhi stanchi e dall’udito difettoso diventa il mio interlocutore privilegiato e tra due chiacchiere sulla crisi, sui giovani e sul lavoro, tra il pandoro, un bicchiere di vino e una tazzina di caffè quasi mi scordo di non essere in Italia, e appena mi torna in mente, quasi ho paura di doverci ritornare. 
  
Bafatà mi è entrata nel cuore. La città vecchia ha tutta la bellezza di un luogo abbandonato e dimenticato dal mondo intero con i suoi edifici portoghesi in rovina, il mercato ancora ben tenuto ma totalmente vuoto, i ciottoli per la strada perfettamente incastrati come se nessuno li calpestasse da anni, un silenzio tombale interrotto solo da cinque donne che con una finezza tipicamente africana ci costringono a sentire i loro canti sguaiati accompagnati da due paletti in metallo che battono il ritmo.
Sembra che il tempo qui non sia mai esistito, e sospesa in questa sensazione di infinito mi diverto ad immaginare le persone che animavano questi spazi, le botteghe aperte al bordo della strada, i carretti che passano trainati dagli asinelli, le voci dei pescivendoli che arrivano dal mercato, le galline che corrono in mezzo alla strada e le donne con i bambini appesi alla schiena che camminano e ridono mentre vanno a prendere l’acqua.

Un clacson suona insistente alle nostre spalle. Mi sveglio dal mio incanto. Per la prima volta nella giornata guardo l’ora sul telefonino. Sono già le sei di sera ed è ora di tornare a casa.


giovedì 22 novembre 2012

Lezioni di Kriol - Parte II

Alin li! = Eccomi qui! (Sto bene)

Alal la! = Eccolo la!

No kume? N’ djusta, obrigadu!
Mangiamo? Sono a posto così grazie!
(Quando capita di salutare per le strade di Bissau qualcuno che sta mangiando è inevitabile l’invito al banchetto, sia che si tratti di noccioline, sia che si tratti di un pasto vero e proprio).

Abos i kin?
Voi chi siete?

Kin ki tciga aonti?
Chi è arrivato ieri?

Kil badjuda tene dus gatu femia.
Quella ragazza ha due gatte.

Mindjer di nha ermon matcu i pulisia.
La moglie di mio fratello è poliziotta.
Nha omi i tambi pulisia!
Anche mio marito è poliziotto!

E rapas na bin bida omi.
Questo ragazzo diventerà uomo.
(Per quanto riguarda il genere in kriol, sono poche le parole che possiedono il femminile e il maschile. In alcuni casi può essere usato l’aggettivo matcu/femia per distinguere il sesso di individui e animali. Mi dispiace per i miei amici sociologi ma non è contemplato un genere neutro. Tutto il mondo è paese e purtroppo anche qua il genere masculo ha la meglio su tutti gli altri.)

No katcur / Bo katcuris.
Il nostro cane / I vostri cani.
(Bisogna ricordare che l’alfabeto kriol è di tipo fonemico per cui a ogni suono corrisponde un segno. Il grafema [tc] va letto pronunciando un suono simile a quello presente nella parola inglese “ match”. Ora che lo sapete potete smetterla di impazzire emettendo ridicoli suoni gutturali.)

N’ta bakia kabras.
Pascolo le capre.

No kumpra sebola.
Abbiamo comprato delle cipolle.

E na bai kumpra tris baka.
Compreranno tre mucche.

Na Bande ten gintis manga del.
Nel mercato di Bandim c’é molta gente.

Aos  no tarbadja tciu.
Oggi abbiamo lavorato molto.

Bo bindi manga di pipinu.
Avete venduto molti cetrioli.
(Apparentemente sembra che il kriol abbia una regola per il plurale. Se la parola indica una realtà collettiva, è accompagnata da aggettivi di quantità, avverbi o numerali non é necessario usare il plurale. In realtà ho l’impressione che nessuno conosca questa norma e che ognuno faccia un po’ quel che gli pare.)


- FRASE DEL GIORNO:
N’na bai findiu kadeira! = Ti spacco il c***!

- PAROLA DEL GIORNO:
Labradur = Agricoltore.
(La parola direttamente derivata dal latino non indica la generalità dei lavoratori, chiamati normalmente “tarbadjaduris”, ma esclusivamente chi ha a che fare con la terra, con l’aratura, la semina e la raccolta. Nonostante sia un termine utilizzato anche in portoghese, seppur in maniera minore rispetto al più comune “agricultor”, è interessante pensare che per anni il concetto di lavoro è sempre stato associato al mero lavoro nei campi al punto da arrivare nel tempo alla sovrapposizione dei due significati. In un paese come questo, la cui economia è fortemente dipendente dal settore agricolo, il lavoratore tipico è ancora quello che spende il proprio sudore nell’orto e che ha l’orario di lavoro scandito dal sole. Ma a quanto pare è troppo faticoso essere un “labradur” e resta così pian piano abbandonato a se stesso un settore come l’agricoltura che, al contrario, dovrebbe costituire il vero motore di sviluppo di tutta la Guinea-Bissau.)


venerdì 16 novembre 2012

Scusi, lei dove deve andare?

Per muoversi in Italia con il taxi bisogna pagare almeno seieuroecinquantacentesimi. Sei euro li paghi solo per il fatto di esserti appoggiato sul sedile e aver inquinato l’abitacolo con la tua presenza. Il resto vale la corsa. In Portogallo sono invece due euro. Dueeuroecinquanta se viaggi di notte, ma anche se devi attraversare tutta la città di Lisbona riempiendo dei tuoi succhi gastrici la portiera del passeggero, non arrivi a spendere più di setteeuroecinquanta compresi di mancia. Qui a Bissau il prezzo di una corsa è di duecentocinquanta franchi. Trecentocinquanta trattabili se la destinazione è fuori mano. Prezzo indefinito se le persone da trasportare nello stesso luogo sono più di una.
Il motivo di un costo così limitato non è dovuto solo alle condizioni precarie in cui versano queste scatole di latta dipinte di azzurro che il più delle volte vedi ammassate ai bordi se non in mezzo alla strada con tre persone infilate dentro il cofano che cercano di capire lentamente quale sia il problema. E non è legato neanche al costo del carburante che, paradossalmente, è solo leggermente più basso di quello che c’è in Italia. La spiegazione sta nel fatto che il taxi qui non è un trasporto di lusso ma é realmente un mezzo pubblico e come tale ha le sue fermate, con le discese e le salite di più passeggeri. E’ così che per andare al mercato di Bandim facciamo il viaggio insieme ad A., pescatore guineense che parla un perfetto italiano dopo aver vissuto per anni a Vicenza e che ha festeggiato da poco i suoi primi venticinque anni di matrimonio. Il clacson starnazza per tutta Zona7 nella speranza di riuscire a svendere i posti rimasti liberi, ci fermiamo nell’ingorgo di Caracol e scarichiamo il nostro amico in cambio di una signora avvolta elegantemente in un tailleur bianco e nero. Un signore chiede di salire, ma non va nella nostra direzione e il tassista decide quindi di abbandonarlo li dov'é in attesa di un'altra Mercedes turchina. All’incrocio di Chapa sale un donnone con una scollatura estrema e nello stesso istante vengo fulminata da un odore ripugnante che riesco a sopportare a fatica. (Mi spiega poi E. che proprio in quel punto dove ci siamo fermati c’è una casa in cui si produce pesce essiccato o qualcos’altro di simile che non emette comunque un buon aroma e mi vergogno verdadeiramente di aver pensato male della nostra nuova compagna di viaggio.)
I sedili del taxi sono rivestiti di un peluche color grigio topo che riesce a farti sudare soltanto guardandolo. L’autista ondeggia la testa al ritmo di musica guineense sparata a palla e con il braccio sinistro fuori dal finestrino batte il tempo, saluta chi passa e si sente padrone della strada. Le voci del mercato invadono la macchina. In mezzo alle grida di chi tenta di vendere banane, acqua e anacardi ai bordi di un terreno che vagamente ricorda l’asfalto distinguo a fatica la canzone che sta passando in quel momento. Il clacson continua a strombazzare. La gente mi parla, ma io non sento niente. E immersa in tutta questa confusione scopro di sentirmi piacevolmente felice.